Quella trasferta da brivido

I motori erano accesi al massimo dei giri ma la torre di controllo esitava nel dare l'ok. Un vento forte, proveniente dalle Alpi spazzava l'aeroporto di Genova e, noi passeggeri a bordo, guardavamo preoccupati  la hostess seduta davanti.

Una breve pausa del vento e la torre di controllo dette il via. Il Fokker avanzò barcollando con il motore a pieni giri, sempre attaccato a terra come se un macigno fosse posato sulle ali; la fine della pista di decollo si avvicinava, di là il mare. Fiato sospeso e poi..... finalmente l'aereo si sollevò virando verso sinistra.

Un respiro di sollievo si udì tra i passeggeri mentre la hostess ci osservava con un sorrisetto tra l'ironico e il divertito.

Dopo la virata a semicerchio l'aereo riprese la rotta per Zurigo, attraversando gli Appennini liguri, la pianura padana e le Alpi coperte di neve. Era metà novembre. Cielo limpido e spettacolo indescrivibile.

L'aeroporto di Zurigo era presidiato da militari e non capivamo il motivo. Anche nella zona d'imbarco dei voli internazionali la gendarmeria era presente in modo massiccio e alle nostre domande non rispondevano.

Rimango ancor oggi con la stessa curiosità.

Salimmo su un Jambo che faceva rotta per Tokio con scalo a Mosca. Le comodità, questa volta, non mancavano. Le hostess distribuivano copertine leggere per i passeggeri che volevano fare un sonnellino dopo aver assaggiato le solite bevande fornite dalla casa. Andavamo alla grande con la Swissair!

Il viaggio sino all'aeroporto  moscovita di Sheremetyevo fu tranquillo e riposante. Atterraggio in perfetto orario, solito controllo d'identità e bagagli estenuante anche se in Unione Sovietica era iniziata l'era Gorbaciov della glasnost e della perestroika. Il militare che controllava i documenti ci fissava insistentemente controllando il passaporto, gli addetti ai bagagli facevano spalancare le valige e rovistavano in lungo e in largo come se cercassero refurtiva. Oltre mezz'ora di tempo ciascuno per sbrigare le formalità di rito.

Ora rimaneva la penultima tappa: trasferirci da un aeroporto all'altro, quello per i voli interni di Vnukovo.
Su un pulmino scassato, pagato l'autista in dollari con l'aggiunta di una stecca di Marlboro, affrontammo l'autostrada tra boschi e pinete disabitate. Si scherzava sull'avventura mattiniera; per qualcuno era stato  il battesimo dell'aria.

Il volo per Volgograd era previsto nel tardo pomeriggio ma le condizioni meteorologiche, anche in questo caso, ci misero lo zampino: neve e vento rinviarono il decollo. La sala d'aspetto per gli stranieri era senza dubbio migliore di quella per i nativi, ma lasciava molto a desiderare specialmente per chi, come noi, avrebbe dovuto attendere per ore l'imbarco. Alcuni divanetti, datati, servizi igienici sui quali stendere un velo pietoso, un minuscolo bar con poca scelta. Eravamo praticamente a stomaco vuoto perché a bordo dell'aereo il pranzo veniva servito durante la tratta Mosca - Tokio e al Sheremetyevo non avevamo fatto in tempo ad acquistare cibarie.

Dopo aver ripulito le scarse scorte del bar non ci rimaneva che attendere pazientemente la chiamata del volo. Il tempo passava scrutando, dalla vetrata, la nevicata accompagnata dal vento gelido, che continuava immutata dal tardo pomeriggio. Non rimaneva altro da fare che accomodarci sui divanetti cercando di riposare. Posata la borsa da viaggio sotto la testa e coperto dal giaccone foderato con pelliccia mi addormentai in compagnia di un gatto.



Fui svegliato al far dell'alba dalla sospirata "chiamata" del volo per Volgograd: la bufera si era calmata e il volo poteva essere effettuato. Le cinque del mattino.

A piedi raggiungemmo l'aereo, un Tupolev per voli interni, dotato di sedili in tela simili a quelli della Citroen 2CV; all'interno svolazzavano mosche e alcuni passeggeri "locali" avevano i bambini in braccio.

Il viaggio sino  a Volgograd durò circa due ore e dopo aver sorvolato l'aeroporto il pilota iniziò le manovre di atterraggio.  Al "tocco" si levarono gli applausi da parte nostra. I "locali" erano indifferenti.

Sedevo accanto al finestrino e notai subito, seguendo dopo poco i segnali posti lateralmente alla pista, che l'aereo tardava a rallentare. Avevo fatto diversi voli in precedenza e la cosa mi parve sospetta. Misi al corrente il collega che sedeva al mio fianco il quale, pensando ad uno scherzo, non si preoccupò.

Quando mi accorsi che ormai il limite stava per essere superato, con voce allarmata gl'ingiunsi di prepararsi alla "botta", cosa che avvenne quando l'aereo uscito dalla pista s'infilò nel prato e affondò con il carrello anteriore nella terra fangosa fermandosi di colpo.

La scena era stata tanto veloce e improvvisa che non si udì nessuna  imprecazione  tra i passeggeri: sembravano tutti impietriti.

Dopo una ventina di minuti ci raggiunse un autobus e iniziammo a scendere dall'aereo per essere trasportati all'aerostazione. Il collega che voleva riprendere con la macchina fotografica la scena con l'aereo a muso nel prato fu immediatamente bloccato da un militare con un secco "niet".

Quel "niet" era la degna conclusione della trasferta più perigliosa della mia vita.
Dobro pozhalovat' v Rossiyu (benvenuti in Russia)


Una trasferta da brivido, sotto tutti gli aspetti

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