Öl Giübì
In tempi non lontani, nell'immediata cintura della città
erano presenti numerose trattorie, osterie o semplici "frasche",
casolari di campagna dove si coltivava la vite e, in primavera, si vendeva il
vino prodotto dal contadino.
Queste ultime, così chiamate perché al loro esterno
veniva issato un ramo, per l'appunto la "frasca", duravano il tempo
necessario a consumare il prodotto locale e ospitavano le famiglie o i gruppi
di amici che nel periodo pasquale, ma non solo, gustavano uova sode e radicchi,
appena colti negli orti, accompagnati da
taleggio e acciughe sott'olio. Era una delle tradizioni del fuoriporta
primaverile.
Tra quelli che rammento, oltre ai più vicini alla città
situati sul colle di San Vigilio, tra i Torni e la Bastia, nella zona di
Astino, tutti situati alle spalle di città alta, vi erano quelli della Maresana,
della Croce dei morti e del Pighet, raggiungibili solo camminando.
Ma la più intrigante era l'osteria del Giübì, non molto distante da San Tomè, chiesa romanica a pianta circolare le cui
origini sono avvolte nel mistero dei tempi.
Il nome dell'osteria deriva dal passato
del suo proprietario, tal Tommaso Locatelli, garibaldino che seguì l'Eroe dei
due mondi nella spedizione dei mille e che tornò al paese d'origine, Almenno,
con la giubba rossa, öl giübì, il giubbino in dialetto bergamasco.
Il garibaldino Tommaso aprì il locale nel 1884 come
"osteria con uso cucina e vendita al dettaglio di vino". Posizionata
non molto lontano dal fiume Brembo, tra l'amenità dei boschi e delle coltivazioni
di vite, era molto frequentata non solo dai compaesani del garibaldino ma anche
da curiosi che volevano ascoltare le sue avventure in terra siciliana e le
battaglie combattute a fianco di Garibaldi.
La licenza di vendita passò, negli anni, dal nonno al
figlio e, successivamente, al nipote Vittorino, classe 1929, che dal 1954 la gestì per quarant'anni sino alla
sua scomparsa.
Il locale rimase pressoché inalterato sino al 1989, con il grande camino,
tavoloni in legno e sedie impagliate all'interno, e alcuni tavolini di graniglia all'aperto
sotto le fronde dei grandi alberi che circondavano il cascinale.
Il salame, i prodotti dell'orto, il suo vino ma,
specialmente, conigli e pollame ruspante, erano le specialità che si potevano
assaporare ovviamente accompagnati dalla polenta preparata sul camino il cui
profumo ti accoglieva, stuzzicando l'appetito, mezzogiorno e sera.
Nei primi anni sessanta, noi giovani frequentavamo
saltuariamente "öl giübì" nel tardo
pomeriggio, a far merenda o la sera in
compagnia per mangiare polenta e salame; non andavamo oltre, le nostre finanze
non lo permettevano. Ci affascinava il luogo passando accanto a San Tomè,
allora non illuminato dai faretti come oggi. Lo raggiungevamo a bordo delle
nostre prime automobili, le gloriose e indimenticabili cinquecento.
La strada sterrata, affiancata dalla siepe e l'ombra
degli alberi del bosco, creavano l'atmosfera di mistero che cercavamo di
scacciare cantando a squarciagola.
La leggenda metropolitana che circolava, raccontava che
il vecchio Tommaso tenesse legato il figlio accanto al camino per impedire che si
allontanasse durante la"sacra" preparazione della polenta. E alcuni, ancor più maligni affermavano che lo legava con la catena. Malignità di paese ma che facevano leva sulla fantasia degli avventori foresti.
Era una leggenda, ma per noi ragazzotti era un ulteriore
motivo di curiosità ogni volta che ci si accomodava sulle sedie impagliate
della stanza adibita ad osteria.
Ammiccando tra noi guardavamo il camino e l'immaginazione
correva.....!
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